Delitto Pamio, i misteri e due donne condannate per lo stesso omicidio

Monica Busetto è stata condannata a 25 anni di carcere per l'omicidio della sua dirimpettaia a Mestre

Lunedì 1 Aprile 2024 di Davide Tamiello
Lidia Taffi Pamio e Monica Busetto

MESTRE - «È meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente». Voltaire lo diceva 300 anni fa, ma questa massima dovrebbe essere un mantra senza tempo per la giustizia di uno Stato di diritto. A dire il vero non servirebbe neppure scomodare un filosofo illuminista, basterebbe guardare al nostro ordinamento, visto che per il codice di procedura penale (articolo 533) «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». La domanda che ci si pone è semplice: in mancanza di un movente, di un quadro accusatorio solido, di una confessione, e in presenza invece di un reale ed effettivo contrasto di giudicati (una sentenza diretta di condanna, e una seconda, invece, in cui si scagiona di fatto il medesimo imputato) si può davvero ritenere di aver spazzato "ogni ragionevole dubbio"? La risposta di chi si trova dall'altra parte della barricata è, chiaramente, "no". Ed è appunto quanto stanno cercando di dimostrare ormai da due lustri Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, avvocati della 62enne operatrice sanitaria veneziana Monica Busetto, condannata in via definitiva a 25 anni di carcere per l'omicidio della sua dirimpettaia in quella palazzina di via Vespucci a Mestre, Lida Taffi Pamio, il 20 dicembre 2012.

I legali hanno presentata istanza di revisione del processo e lo scorso 20 marzo la Corte D'Appello di Trento ha rigettato la richiesta. A questo punto, le speranze di riaprire il caso sono affidate all'ultimo passaggio in Cassazione. Mentre tutta Italia si divide, quindi, sulla revisione del processo di Rosa e Olindo Romano, reo confessi condannati all'ergastolo per la strage di Erba, il Veneziano ha il suo corrispettivo con delle ombre, se possibile, ancora più marcate sulla ricostruzione degli inquirenti lagunari.

I DUBBI
Ma cos'è che non quadra e perché ci sono così tanti dubbi sulla condanna di Busetto? Non c'è, appunto, un movente. Non c'è prova del fatto che la 62enne sia mai entrata nell'appartamento della signora Pamio (nessuna impronta, nessuna traccia biologica). C'è, invece, la confessione di un'altra donna, Susanna "Milly" Lazzarini, suffragata anche da una sua impronta lasciata su un interruttore (ma di lei parleremo più avanti) nell'appartamento della vittima. Che cosa inchioda, di fatto, Busetto? Tre picogrammi di Dna (rinvenuti però solo a un secondo test a Roma, il primo in laboratorio a Padova aveva dato esito negativo) della signora Pamio rinvenuti su una catenina in un portagioie a casa della oss. Tre picogrammi, ovvero tre bilionesimi di grammo. Va detto che non risulta, in giurisprudenza, che in passato si sia mai presa in considerazione una quantità così infinitesimale di traccia genetica per condannare qualcuno. Non, quantomeno, come unica prova. Ne parla in una sua pubblicazione anche il professor Emiliano Giardina, responsabile delle analisi di Genetica forense dell'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" ed è in buona compagnia. L'ex Gip di Milano e docente della Bocconi Giuseppe Gennari cita il caso Busetto nella sua pubblicazione "Errore giudiziario e prova scientifica": «Può essere che il Dna di X sia lì perché è lui il colpevole, ma può anche essere che X abbia avuto un contatto casuale con la vittima nei giorni precedenti o può essersi verificato un trasferimento secondario o terziario o una contaminazione di laboratorio. (...) A mio giudizio questo è quello che è accaduto in un recente caso di omicidio deciso sulla base di poche cellule di Dna appartenenti alla vittima, rinvenute su una catenina sequestrata a casa della presunta colpevole».
Franco Taroni, direttore della Uoc genetica di Milano, unità medica specializzata nell'impiego sistematico delle nuove tecniche di sequenziamento ad alta efficienza del Dna, ne parla nella pubblicazione "Contaminazioni di un reperto con il Dna - Quando la prova genetica porta direttamente alla condanna". Poiché, secondo Taroni, non si può escludere «una contaminazione del reperto 13 (la collana), reperto considerato dall'Accusa come il legame tra il crimine e la persona sospettata. (...)», quindi «la "prova" scientifica del Dna non può essere considerata dunque, da un punto di vista scientifico, risolutiva». Il caso Busetto è diventato anche un libro, scritto a quattro mani dal giornalista Massimiliano Cortivo e dal docente di Statistica per l'investigazione Lorenzo Brusattin, "Lo Stato italiano contro Monica Busetto".

LA VICENDA
Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quasi dodici anni fa: il 20 dicembre 2012 l'87enne Lida Taffi Pamio viene brutalmente uccisa nel suo appartamento di viale Vespucci. Strangolata con un cavo, soffocata con dei fazzoletti in gola, finita da 40 fendenti inferti con due coltelli da cucina. La squadra mobile di Venezia, dopo circa un anno di indagini, il 30 gennaio 2014, arresta Busetto: a incastrarla, appunto, c'è quella catenina. Il 22 dicembre 2014 arriva la prima condanna, in primo grado a 24 anni e 6 mesi. Sembra un caso chiuso, ma nel gennaio del 2016 ecco il colpo di scena. La notte di Capodanno viene arrestata Susanna "Milly" Lazzarini per l'omicidio di un'altra anziana, Francesca Vianello. Durante un interrogatorio con uno degli investigatori della mobile, Franco Protopapa (recentemente scomparso a causa di una grave malattia), Lazzarini ha un lapsus freudiano: il detective chiede a chi abbia rubato quel portafoglio e lei risponde d'impulso. «Alla Pamio». Il poliziotto non molla la presa, vuole capire il perché di quell'errore. Lazzarini, messa alle strette, spiega che entrambe le anziane, Vianello e Pamio, erano amiche di sua madre e, alla fine, confessa di essere anche l'omicida di via Vespucci.
La donna viene interrogata per cinque volte, in cui fornisce tre versioni differenti. Nei primi tre (compreso il primo in cui, non sapendo di essere registrata, confessa durante un colloquio con il figlio) Lazzarini conferma di aver agito da sola. Solo negli ultimi due tira in ballo Busetto, inizialmente dicendo di aver visto lei all'interno dell'appartamento e di essere subentrata per l'omicidio salvo poi cambiare versione nuovamente affermando che invece era lei, per prima, ad aver ingaggiato quella colluttazione violenta con l'87enne e che Busetto sarebbe entrata in casa, avrebbe preso un coltello, avrebbe trafitto l'anziana (commentando anche «non sei nemmeno in grado di uccidere una vecchia, ti faccio vedere come si fa») e se ne sarebbe andata uscendo dall'appartamento. Le due donne non si sarebbero più sentite, non avrebbero più avuto alcun contatto. Neppure in carcere, quando erano state messe nella stessa cella per capire se potessero esserci delle reazioni in grado di far luce sul caso. Busetto dopo l'arresto di Lazzarini viene scarcerata ma in appello arriva la condanna all'ergastolo (poi ridotta a 25 anni dopo il ricorso in Cassazione: la sentenza definitiva arriva l'8 gennaio 2020).

IL CONTRASTO DI GIUDICATI
E arriviamo a oggi, al processo di revisione, che nasce dalla sentenza di "Milly" in cui il giudice David Calabria mette nero su bianco l'estraneità di Busetto: «Il ruolo di materiale compartecipe nel delitto in imputazione attribuito alla coimputata, giudicata separatamente, Busetto Monica, non ha trovato, alla stregua del compendio probatorio disponibile, adeguato riscontro». Dunque: due verdetti, uno che scagiona la 62enne e un secondo che la condanna. Una vittima, due colpevoli (non in concorso). Non abbastanza, per la Corte d'Appello di Trento, per mettere in discussione i processi precedenti. Non abbastanza per instillare quel "ragionevole dubbio" diventato, nel frattempo, un tarlo nella mente di tanti.
 

Ultimo aggiornamento: 2 Aprile, 16:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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