Quei malati-guerrieri che sconfiggono la paura di morire

Martedì 13 Febbraio 2018 di Maria Latella
Nella società liquida e dai confini incerti è incerto anche il sentimento della vergogna. Sembra quasi che ormai riguardi solo i soggetti più vulnerabili: i ragazzini oggetto di attacchi sul web; o i malati di malattie evocatrici di morte, il destino che più spaventa noi umani. La vergogna di dirsi malati di tumore, la vergogna di ammettere «potrei morire» si spiegava solo con la riluttanza che noi umani abbiamo rispetto al fatto di saperci “a tempo”. Perciò grazie, Nadia Toffa. Grazie per averlo detto, l’altra sera, in tv: «Io non mi vergogno».

Grazie per aver sdoganato il diritto alla buona e pubblica battaglia. Se c’è stato un momento in cui chi fa televisione ha benedetto il mezzo, ecco, quel momento c’è stato l’altra sera alla trasmissione “Le Iene”. 
Quante donne che in questo momento coprono con una parrucca i segni della chemio, avranno accarezzato quei loro capelli finti con un nuovo sorriso? Quanti malati in cura in ospedale avranno sussurrato a loro stessi: «Anch’io non mi vergogno. E anche io, sì, mi sento un figo pazzesco». Perchè questo sono: guerrieri, come li ha chiamati Nadia.

Guerrieri che combattono il nemico che più spaventa noi poveri umani: quella fottutissima superpotenza che si chiama morte. E a proposito, Nadia Toffa, grazie anche per aver detto due paroline chiave per tutti i guerrieri e per le loro famiglie. Due paroline essenziali: chemio e radio. Perché per combattere servono armi vere e non si può andare in battaglia armati di pistole giocattolo.

Ma è soprattutto sull’altra parola chiave, vergogna, che vorrei concentrare queste righe. Penso a quanto coraggio hanno trasmesso agli altri malati le persone che, da Emma Bonino a Nicola Mendelsohn, hanno deciso di condividere la loro paura della morte. E penso a quanto sia utile una campagna come “Viverla tutta” e l’esperienza della medicina narrativa. La malattia grave, quella che mette a rischio la vita, è una rottura biografica, un vero e proprio punto di frattura nella trama esistenziale, si legge in “Storie di malattia narrate dai protagonisti”. Parlarne, scriverne è una vera terapia come ho appreso presentando, qualche mese fa, “Da qui in poi”, una raccolta di ventuno racconti autobiografici, ventuno persone che hanno visto la loro vita o quella di chi amano travolta dalla malattia. 

Scrivere è vivere. E ascoltare è l’aiuto più grande che si possa dare ai guerrieri che non si vergognano più. Anche grazie a chi, usando tutta la potenza di un media potente come è la tv, li ha definiti per quello che sono: «dei fighi pazzeschi».
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