Vajont 1963-2023. La vita segnata di chi c'era. Il libro in edicola con il Gazzettino

Venerdì 22 Settembre 2023 di Edoardo Pittalis
Vajont

Paolo Munarin aveva 20 mesi quando la notte del 9 ottobre 1963 l'onda ha cancellato Longarone e i paesi della Valle del Vajont, facendo 1910 vittime. Abitava con i genitori, i nonni e gli zii nell'unica casa rimasta in piedi, quasi intera e dritta in una pianura di fango duro come una crosta di marmo nero. Un carabiniere e un poliziotto in motocicletta lo hanno portato in salvo dove non esistevano strade e il cielo dell'orizzonte era vuoto. Paolo c'era, ma non poteva ricordare. Da più di sessant'anni, ha sentito in famiglia e dagli amici i ricordi di quella notte. Ha raccolto le loro storie in "Vajont. Quella notte io c'ero: racconti di chi è sopravvissuto" e il libro sarà distribuito da sabato in edicola allegato al Gazzettino.

L'ultimo racconto è dedicato a una tomba in più a Fortogna, di quello che chiamano "l'angelo del Vajont", il medico condotto Gianfranco Trevisan. Dopo il disastro il Presidente della Repubblica gli aveva conferito la medaglia d'argento al merito della "Sanità pubblica". C'è l'alluvione del 4 novembre del 1966. Il dottor Trevisan con la sua 500 color caffelatte corre sotto il diluvio verso Fortogna dove c'è una vecchia da curare; ha dato un passaggio a un operaio che cerca il fratello nella campagna allagata. Devono attraversare il torrente Maè che scende impetuoso dalla Val di Zoldo.

Va avanti, pensa che il destino non può averlo salvato dalla notte del Vajont per poi lasciarlo annegare. Ma il ponte sul torrente non c'è più e, quando arriva, la 500 di colpo si ritrova nel vuoto e si inabissa. Arriverà una nuova medaglia, questa volta d'oro e alla memoria: "Sublime esempio di solidarietà umana e nobile testimonianza della perenne opera di dedizione al dovere di difendere la vita e di lenire il dolore proprio dei medici condotti italiani".

La realtà è sempre più terribile della fantasia. Qualche volta più struggente. Come la storia delle cento voci di un coro di bambini nascoste in un nastro registrato su un magnetofono, di quelli che si usavano allora. Qualcuno aveva chiuso il nastro in una scatola di ferro che la forza dell'acqua quella notte aveva rubato da un tavolo, avvolgendola di fango e depositandola in profondità. Fino a quando qualcuno l'ha trovata, ha ripulito il nastro e inciso su un disco le tre canzoni del coro del Patronato della scuola elementare di Longarone. Di quei cento bambini sarebbero rimasti in trenta dopo il Vajont a poter cantare un'altra volta così: "La campana che suona vicina che suona lontana/ che al mattino ci sveglia e la sera di invita al riposo/ sempre batte: dan, dan, dan, dan!". E quei trenta bambini sopravvissuti c'erano dieci giorni dopo la tragedia, quando furono allineati in banchi di fortuna in aule allestite in fretta per restituire un'immagine di vita normale. Bambini nei loro grembiuli neri e un nastro azzurro o rosa. Tutto quello che era rimasto di una popolazione scolastica di Longarone che come segnala con precisione l'agenzia Ansa delle ore 19.50 del 12 ottobre era composta "di 590 alunni, di questi 430 sono dispersi e 160 sopravvissuti". Sul Gazzettino campeggia una foto, 48 scolari siedono su banchi improvvisati, hanno davanti libri, quaderni e matite colorate arrivati in dono da ogni parte d'Italia. I bambini guardano fuori dalla finestra e vedono i militari che continuano a scavare. Germano, 10 anni, disegna: non il nulla, ma le case che c'erano prima e uomini e donne che camminavano per le strade e i bambini che corrono in chiesa per prepararsi alla Prima Comunione.

Lo sapevano tutti da anni, non c'è stata tragedia più annunciata. Lo aveva denunciato con coraggio la giornalista bellunese Tina Merlin, corrispondente de "L'Unità"; più volte, fino ad essere ingiustamente processata col suo direttore con l'accusa di aver diffuso notizie atte a turbare l'ordine pubblico. Assolti a Milano perché il fatto non costituisce reato: si sono limitati a esercitare il loro diritto di cronaca. In quei giorni, poi, la centrale e la diga non sono più neppure della Sade, la società veneta creata negli Anni Venti per lo sfruttamento dell'energia idroelettrica. Sono state appena nazionalizzate: tutto è dello Stato, tramite l'Enel, ed è stato venduto a peso d'oro e, sulla carta, perfettamente funzionante. La prima notizia precisa dell'agenzia di stampa Ansa è delle 10.39 del 10 ottobre, esattamente 12 ore dopo: "Il paese di Longarone praticamente non esiste più. É stato cancellato. Al suo posto non vi è che un'enorme massa di fango". Due ore più tardi l'agenzia aggiunge informazioni sempre più drammatiche: "Dal Piave continuano a emergere centinaia di corpi straziati, uomini, donne e bambini, quasi nudi, sorpresi nel sonno. La furia delle acque ha strappato loro di dosso ogni indumento". "Non è rimasto nulla. Non nulla per dire poca roba: proprio nulla", scrive Giampaolo Pansa inviato speciale del quotidiano milanese "Il Giorno".

Titola il Gazzettino: "Scomparsa ogni forma di vita a Longarone e nei paesi vicini". Tina Merlin torna e racconta: "Scrivo da un paese che non c'è più. Magari fossi riuscita a turbare l'ordine pubblico. Chi considerava un articolo sull'Unità più pericoloso di una frana grossa come una montagna restò inerte La storia del grande Vajont durata vent'anni si è conclusa in tre minuti con l'olocausto di duemila vittime". Quello che seguirà sarà un processo ai poteri forti, tormentato, ingiusto, lunghissimo, rifatto, aggiustato e finalmente concluso. Soltanto a quarant'anni dalla tragedia un Presidente della Repubblica va sulla diga: Carlo Azeglio Ciampi dice con forza "Mai più un altro Vajont". Sono le scuse ufficiali dello Stato; le ripete dieci anni dopo Giorgio Napolitano che aggiunge: "Non fu fatalità". Quest'anno per i 60 anni dalla tragedia arriverà il Presidente Mattarella. 

Ultimo aggiornamento: 09:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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