La storia di Cristina e Tanya: «Picchiate e umiliate anche mentre eravamo incinte, ora fuori dal tunnel»

Sabato 16 Marzo 2024 di Nicola Munaro
La storia di Cristina e Tanya: «Picchiate e umiliate anche mentre eravamo incinte, ora fuori dal tunnel»

PADOVA  - Cristina e Tanya sono due donne con una storia in comune. La prima è italiana, la seconda dell’Est Europa. Entrambe hanno figli ed entrambe hanno un passato buio, dove l’unica luce era quella fosca della violenza. Ma Cristina e Tanya - ciascuna per sé - hanno scritto un nuovo capitolo della loro vita e quel buio di violenze è diventato un ricordo che non torna più.
Hanno lasciato i loro mariti e grazie al Centro Veneto Progetti Donna di Padova ora possono guardare oltre.

Il loro vissuto, assieme ad altre storie simili, è diventato il cuore del libro “Siamo state tutte”, pubblicato in occasione dei 30 anni del Centro.

L’ALCOL E L’INCUBO
«Sbollita l’arrabbiatura insisteva per fare la pace, che per lui significava fare sesso - racconta Cristina - Solo l’idea mi dava la nausea, ma dovevo farlo. Vivevo nell’incertezza e nella paura. Non sapevo cosa aspettarmi quando infilavo le chiavi nella serratura di casa: lo avrei trovato allegro? Arrabbiato? Ubriaco? Io volevo soltanto un po’ di serenità, per me e per i miei figli. La parola divorzio non rientrava nel mio vocabolario né tantomeno nei miei pensieri. Non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi che il mio matrimonio potesse finire». E invece quella certezza per lei granitica era minata giorno dopo giorno nelle fondamenta dai soprusi del marito. Che beveva e che tormentava anche i loro figli. Una realtà nella quale per lui c’erano libertà e per lei no. «Quando sono arrivati i figli, mi sono sentita una donna realizzata: nella mia testa mi ero creata la mia famiglia. La realtà - continua lei - però era diversa: lui mi aveva fatto terra bruciata intorno; brontolava quando andavo a trovare i miei genitori, mi faceva pesare le uscite con il gruppo scout. Io invece l’ho sempre lasciato libero di dedicarsi alle attività che gli piacevano di più, comprese le vacanze insieme agli amici mentre io restavo a casa con i bambini».


Poi era arrivato l’alcol, ed era stato la causa delle prime botte che lui le aveva dato. «Mi ha sferrato un pugno in faccia, me lo ricordo bene. L’occhio era nero e gonfio: guardando quell’ematoma allo specchio ho capito che qualcosa non andava. La mattina dopo lui sembrava sorpreso: “Ti ho fatto io quella roba lì?”. E preoccupato: “Mi denunci?”». La prima ancora di salvezza per Cristina arriva quel giorno: fuori dalla palestra frequentata dalla figlia, lei incontra un amico poliziotto che si accorge e capisce. Le parla e le mette la pulce nell’orecchio. Le violenze continuano («mi ha spaccato il cellulare con un martello») così come le scuse date da lei a chi le chiede qualcosa.
«La violenza non risparmiava neppure i nostri figli: da sbronzo aveva picchiato una delle nostre figlie lasciandole dei lividi sulle braccia e - continua il racconto - una volta ha colpito con il battipanni sulla schiena uno dei maschi. La bimba più piccola invece una sera era andata a recuperare la cena che lui aveva buttato fuori dalla finestra». La svolta arriva quando lei ha la certezza dei tradimenti del marito: lo segue e si fa vedere sotto casa dell’amante. Non si dicono nulla, ma tutto cambia. Cristina chiede il divorzio, chiama il Centro, trasloca con i figli in una casa protetta. Rinasce. 

L’ANIMA IN CENERE
«Preferivo le botte perché il dolore passava e i lividi si scolorivano, era solo questione di tempo», è il ricordo di Tanya. «Ma quello che lui mi diceva mi distruggeva l’anima. Come se scavasse dentro di me con un coltello affilato, lentamente, affondando la lama ogni giorno di più, fino a svuotarmi di senso. Era un dolore talmente profondo da spegnermi il sorriso. Non avevo più la voglia di giocare con le mie bambine. Non volevo alzarmi dal letto la mattina. Non potevo nemmeno soffrire in pace perché lui mi stava sempre col fiato sul collo. Persino quando lui non c’era i suoi pensieri mi seguivano sempre, come un’ombra. Le sue parole mi rimbombavano in testa “Non vali niente, non sai fare niente”, come un’eco senza fine. Il primo schiaffo è arrivato quando ero incinta di sei mesi. Forse anche prima aveva dato dei segnali di essere un uomo violento ma non li avevo riconosciuti. Per me quel gesto non era stato così grave. Era arrabbiato perché non voleva legami e responsabilità. In quel periodo mi odiava. Quando ha saputo che sarebbe arrivata una femminuccia non mi ha rivolto la parola per più di un giorno».


Tanya ha avuto una gravidanza difficile ma lui passava le giornate a giocare alla PlayStation nella stessa stanza dove lei era a letto: «Ricordo questo suono incessante di spari, che non mi permetteva di riposare. Non gliene fregava di me, del bambino, di niente». Lei, che aveva lasciato il suo paese, se n’era tornata a casa dove, comunque, la sua cultura le imponeva, quasi, di accettare soprusi che non finivano mai. Così, dopo tre anni nei quali era lui ad andare da lei, Tanya torna a casa e l’incubo ricomincia a suon di percosse e minacce: «Sapevo che teneva un coltello in casa. Eppure non mi sentivo ancora in pericolo», dice. Il punto più profondo dell’abisso, per Tanya, è una sera in cui lei impedisce al suo uomo di uscire: lui, davanti ai suoi amici, non cede. Le dice di lasciare la bambina perché vuole picchiarla ma non succede nulla di tutto questo. Quando lui esce, scappa anche lei e chiama il Centro che la accoglie.
Tanya si lascia aiutare, pensa alla sua bambina.
Volta la carta, lui non c’è più.

 

Ultimo aggiornamento: 17:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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